Sanzioni economiche e sicurezza internazionale: costi nascosti e qualche paradosso

La ricerca di strumenti per la soluzione non militare delle crisi costituisce un\u2019ambizione ricorrente degli Stati e della comunit\ue0 internazionale. Ci\uf2 vale soprattutto nei momenti di crescente benessere o di difficolt\ue0 pi\uf9 o meno latente. Nel primo caso, l\u2019obiettivo di fondo \ue8 ridurre i costi materiali di dispositivi militari considerati tendenzialmente non necessari. Nel secondo, \ue8 contenere quelli di dispositivi considerati troppo dispendiosi e proni a sottrarre risorse a pi\uf9 proficui impieghi. In entrambi i contesti, \ue8 implicita l\u2019idea che il ricorso generalizzato a strumenti non militari risulti meno politicamente divisivo sul piano interno e capace di aggregare maggiore consenso su quello internazionale. Da queste premesse, non stupisce che, nella prima met\ue0 degli anni Novanta, all\u2019apogeo del sogno irenista della \u201cfine della storia\u201d, lo strumento economico abbia sperimentato un rilancio, sia nell\u2019ambito multilaterale delle Nazioni Unite, sia in quello \u2018multi-bilaterale\u2019 della \u2018diplomazia coercitiva\u2019 occidentale. Allo stesso modo, non stupisce che oggi \u2013 in una fase di chiaro ripensamento dei criteri che hanno presieduto alla quantificazione dei bilanci per la sicurezza \u2013 il tema sia stato risollevato da varie parti come un\u2019alternativa credibile ed efficace all\u2019azione diretta sul campo. In termini analitici, una risposta credibile e condivisa sull\u2019efficacia politica della leva economica non \ue8 ancora stata fornita. Al contrario, la \u2018proliferazione sanzionatoria\u2019 che ha caratterizzato gli anni Novanta e Duemila sembra avere fornito nuovo alimento a un dibattito gi\ue0 fortemente polarizzato. In tale quadro, le esperienze dell\u2019Iraq (1990-2003) e dell\u2019Iran (1979-) sono state proposte come esempi paradigmatici della scarsa incisivit\ue0 dei provvedimenti di embargo, almeno nella loro declinazione tradizionale. Maggiore apprezzamento \ue8 stato dimostrato alle sanzioni \u2018intelligenti\u2019 (smart) o \u2018mirate\u2019 (targeted sanctions), imposte a un ampio numero di soggetti, dapprima nel quadro della GWOT, quindi, anche recentemente, in particolare dall\u2019amministrazione statunitense, in quello delle misure adottate contro dell\u2019Iran per contenere il suo programma di arricchimento di combustibile nucleare. Tuttavia, anche riguardo a tale strumento sono state avanzate riserve, sia per quanto concerne la sua effettiva capacit\ue0 discriminante (i.e. la capacit\ue0 di di colpire i destinatari in maniera selettiva), sia per quanto concerne la sua efficacia nel determinare (in assenza di altri strumenti di coercizione) modifiche significative nel comportamento dei soggetti (Stati o individui) destinatari. Soprattutto, quella che resta in discussione \ue8 (prescindendo dalla dimensione etica degli interventi, o dalle loro possibili implicazioni giuridiche rispetto alla posizione di Paesi terzi, soprattutto nel caso gli interventi stessi comportino l\u2019adozione delle c.d. \u2018sanzioni secondarie\u2019) \ue8 la valutazione delle ricadute effettive dello strumento sanzionatorio sul Paese o sulla coalizione emittente; in altre parole, la quantificazione dei costi diretti e indiretti che le sanzioni economiche hanno su chi decide di farvi ricorso. Tali costi non sono solo quelli derivanti dalla (prevedibile) riduzione dell\u2019interscambio diretto, ma includono valori di pi\uf9 difficile stima, come, ad esempio, sul breve periodo, quelli legati alla ricerca e alla valorizzazione di mercati alternativi di fornitura o di sbocco, o, sul lungo periodo, quelli connessi all\u2019emergere di distorsioni permanenti dei flussi reali o finanziari tradizionali. La difficolt\ue0 di definire concretamente come misurare il successo di un intervento sanzionatorio e come discriminarne l\u2019impatto relativo rispetto a quello di altri provvedimenti che possono accompagnarlo concorre a complicare il problema, mettendo in dubbio la possibilit\ue0 (se non la correttezza metodologica) di affrontarlo con gli strumenti consolidati dell\u2019analisi costi/benefici. Un reticolo di problemi si annoda, quindi, intorno al tema dell\u2019efficacia/efficienza dello strumento sanzionatorio, contribuendo a configurare l\u2019eventuale a scelta di farvi ricorso pi\uf9 come il prodotto di una logica politica che come l\u2019esito dell\u2019applicazione di qualche forma di razionalit\ue0 economica. Al di l\ue0 dalla loro validit\ue0 concreta quale strumento di crisis management, le sanzioni economiche concorrono, infatti, al conseguimento di una pluralit\ue0 di obiettivi, molti dei quali rivolti, prima che al Paese-target, al/ai sender, alla sua/loro opinione pubblica e alla comunit\ue0 internazionale nel complesso. Il loro valore quale \u2018mezzo di comunicazione\u2019 \ue8 ampiamente riconosciuto, cos\uec come la loro utilit\ue0 ai fini di costruire/aggregare consenso in situazioni di crisi. Esse rispondono a una logica \u2018gradualista\u2019 e di medio/lungo periodo che pu\uf2 proficuamente sostenere l\u2019operare dello strumento diplomatico. Tuttavia, appare difficile sostenere, da una parte, la loro capacit\ue0 di fungere da strumento privilegiato per il conseguimento di obiettivi di natura politica (specie se di larga portata, quale l\u2019attivazione di processi di regime change), dall\u2019altra \u2013 a maggiore ragione \u2013 di permettere di conseguire tali obiettivi in termini vantaggiosi dal punto di vista dei costi materiali