Inferno, canto XXIX. Dante è con Virgilio nella bolgia dei falsari. Gli si presenta allora l’ombra di tale Capocchio – sprofondato nel tormento eterno per aver manipolato «li metalli con l’alchimia» – e, proprio prima che il canto dilegui, offre al poeta gli strumenti per una possibile agnizione: «e te dee ricordar, se ben t’adocchio / com’io fui di natura buona scimia». L’orgoglio evidente con cui l’ultima battuta è pronunciata contrasta con la terribilità del luogo e della punizione a cui Capocchio è sottoposto. Quasi che nel suo personaggio – o meglio, nella contraddizione performativa tra la fierezza delle sue parole e il corpo piagato dalla «scabbia» – si venissero ad allacciare in equilibrio instabile due diverse tradizioni concettual...