Grande mercato, bassi salari: la Confindustria e l'integrazione europea, 1947-1964

L\u2019integrazione europea poteva essere sfruttata in modo pi\uf9 fruttuoso per l\u2019economia italiana? Un quesito controffattuale come questo \ue8 di assai difficile, se non impossibile, risposta. Ma, anche alla luce dell\u2019evoluzione degli ultimi dieci anni che ha messo in evidenza la debolezza strutturale del sistema industriale della penisola e ha scatenato un dibattito sul declino economico italiano, ci sembra che una domanda del genere valga la pena porsela. Proprio perch\ue9, a nostro avviso, le radici della debolezza strutturale dell\u2019industria italiana vanno ricercate anche nei modi in cui l\u2019integrazione economica \ue8 stata interpretata dai gruppi dirigenti del Paese. In termini generali, \ue8 nostra convinzione che l\u2019inserimento dell\u2019economia italiana nel contesto europeo si sia giocato in una chiave che non ha aiutato a promuoverne una piena evoluzione strutturale e che, nel determinare tale risultato, decisivo sia stato il ruolo di una parte importante della borghesia industriale. Imprigionata dalla necessit\ue0 di mantenere inalterata la precaria base di potere del capitalismo privato, fondata sull\u2019equilibrio bassi consumi-bassi salari, essa si affid\uf2 all\u2019idea di un\u2019integrazione \u201csubordinata\u201d, per cui all\u2019Italia era riservato il ruolo di serbatoio di manodopera del Mec. In assenza di una visione strategica di sviluppo, che puntasse a coniugare apertura internazionale e progresso interno, si enfatizzavano quegli aspetti del vincolo esterno funzionali al quaeta non movere confindustriale